
Biografia
Non una biografia ma un colloquio con Claudio Gardenal
Tempo fa abbiamo chiesto a Claudio della sua vita passata. Ci ha risposto: «Inizierò a vuotare il sacco nel giorno del mio compleanno [4 ottobre]». E quindi abbiamo incominciato a raccogliere queste sue… “miniature”, sparse qua e là, a partire dal giorno del suo sessantottesimo compleanno.
L’opera d’inserimento di nuovi “capitoli” sta continuando.
Raffaella Linzi e Daniele Vescovi
«Ripercorro il mio passato per esprimere gratitudine alla vita».
Sono nato ad Aquileia, in provincia di Udine. Figlio unico. Ancora oggi vorrei che il mio nome suonasse sulle labbra di una sorella… sì, senza sorella mi sento defraudato d’una importante parte di me.
Per ragioni di lavoro riguardanti mio padre, nella primavera del 1961 ci siamo trasferiti a Feletto Umberto, paese ai margini della città di Udine. Io avevo compiuto sei anni nell’ottobre del ꞌ60. Non ricordo come vi siamo andati, non ho alcuna immagine del viaggio, dell’arrivo, delle prime impressioni, ma lì è cominciata la mia vita: la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia prima giovinezza si chiamano Feletto, semplicemente Feletto, indimenticato Feletto… e Udine è diventata la mia città.
Ad Aquileia languivamo nella miseria, a Feletto vivevamo di stenti. Sono stati anni difficili: la vita era grigia, di un’aspra modestia, ed in certi casi tendeva al colore nero. Dal momento che non mi sentivo triste ma felice, felice come quando si è in pace con gli altri e con sé, ed il mondo è nostro, a tutt’oggi mi chiedo quanta e quale influenza ha avuto su me e sulla mia formazione quel senz’altro utile ammaestramento.
Nella scuola elementare, mi sono ritrovato acceso sostenitore della squadra di calcio del Bologna. A distanza di sessant’anni, circa, la “squadra del cuore” continua ad essere il Bologna. Il trasferimento alla Juventus di Helmut Haller, l’impareggiabile “nostro numero dieci”, mi provocherà grande dolore morale: fu un passaggio che aveva il sapore di tradimento… stando a come, ancora oggi, la penso io. Verso la fine della terza classe – ho presente nella memoria che faceva caldo – ottenni il “diploma d’onore”, così era scritto sull’attestato di benemerenza, ovvero il primo premio per aver svolto un tema su non so quale argomento… verosimilmente si trattava di pensierini. Rammento bene di quanto fui dubbiosamente felice poiché non comprendevo appieno l’avvenimento. Dell’insegnamento ricevuto nella scuola primaria non saprei dire nulla. Ricordo il Signor Maestro di quarta e quinta: si vestiva di tutto punto… molto basso di statura… viso paffuto… capelli pochi e sempre in ordine… sicuramente scrupoloso ma, altrettanto sicuramente, non ispirava entusiasmi.
A metà anni ‘60 abbiamo avuto la nostra prima radio, rigorosamente di seconda mano, e così la malinconica e triste stanza in cui vivevamo si era vestita di favola. Ogni martedì sera, alle ore venti, la mamma ed io eravamo puntualissimi a cogliere, fra sìbili e fischi, ogni nota della trasmissione radiofonica “Attenti al ritmo!” condotta da Mike Bongiorno. L’orchestra era diretta dal maestro Gorni Kramer… un musicista, per me, “tutto tedesco”.
1965. Prima media. Mi sono subito infatuato in egual misura per la lingua francese, l’educazione musicale, l’italiano e l’educazione fisica.
Seconda media. Non c’è più “Educazione musicale”… peccato! In ordine di gradimento, le materie che mi danno immenso piacere sono: italiano, educazione fisica, francese… è ancora scritta perfettamente nella mia memoria la bellissima poesia in lingua francese che imparai. All’epoca faccio anche la seguente scoperta di notevole importanza: la matematica è spaventosa! Eh già! La matematica mi suscita un senso di orrore e di repulsione insieme, è qualcosa di estraneo, di ostile, di tremendo! La matematica, per me, rimane un ripugnante mistero… e non voglio sentire ragioni!
Terza media. Alla fine dell’anno scolastico, un avvenimento nuovo ed elettrizzante: sul terreno retrostante all’edificio scolastico, predisposto per lo scopo, si disputarono alcune gare di atletica leggera. Cinque metri e trentanove centimetri mi valsero l’oro nel salto in lungo: la prima medaglia della mia vita.
Nel triennio di scuola secondaria inferiore il “mio punto di riferimento” imprescindibile, il “mio faro” è la signora Neda Corradini, professoressa di lettere, la “mia insegnante d’italiano”… credo sia stata lei il mio primo amore.
Fino ai tredici anni, o giù di lì, mi ammalavo spesso: raffreddori, sempre mostruosi, che puntualmente degeneravano in bronchiti alleate con quella cattiva ed insistente tosse secca in grado di schiantarmi il petto e la testa. Le influenze, poi, mi davano il colpo di grazia: degenze lunghe fra lo stordimento della febbre e lo sfinimento dei sudori profusi.
Il Signor Cappellano, sacerdote novello pieno di dinamismo, arrivato a Feletto per affiancare il Signor Parroco, decise di adunare le persone che desideravano fare teatro: evento gioioso! Io, tredicenne desideroso di sperimentarmi nell’arte teatrale, mi feci avanti e mi unii alla compagnia: solo l’idea di recitare mi mandava in estasi, sprizzavo felicità da tutti i pori. Ci trovammo, una sera, nel cinema parrocchiale: eravamo più o meno una dozzina e solo maschi. Senza indugio mi venne dato un copione ed indicato il personaggio da interpretare. Organo giudicante: il Signor Cappellano. Orbene, l’unica cosa che posso dirvi è che in quattro e quattr’otto dovetti far fagotto: fui giudicato incapace, impedito, inadatto alla recitazione, insomma, il teatro non faceva per me. Umiliazioni che bruciano, e graffiano ancora oggi a sangue, sono state la superficialità, la frettolosità del giudizio e certe parole che, a quell’età, lasciano giust’appunto il segno.
Dai sette ai quattordici anni, grosso modo, passavo l’intera estate con i nonni materni a Borgo Sant’Antonio, località ad un tiro di schioppo da Fiumicello, in provincia di Udine: alla fine dell’anno scolastico, senza conoscerne i risultati e senza tirare il fiato, via come un fulmine con l’autocorriera per raggiungere la borgata. L’autista, che in un primo tempo ha vegliato su quella mia sorte, ancora me lo vedo: camicia di colore celestino con maniche corte e aperta al collo, taciturno, sigaretta tra le labbra, naso adunco e tanti buchetti sulle guance. «Borgo Sant’Antonio…», mi faceva sommessamente sapere: era una “fermata a richiesta”. La casetta di pietra dei nonni, davvero minuscola, costituiva il “frammento finale” di un enorme fabbricato settecentesco e restava a ridosso della corta strada che attraversa il borgo, in corrispondenza di una delle quattro curve a gomito… ora, quando ci passo, mi rendo conto della vasta campagna tutt’intorno, una terra buona, ben accudita, a campi e vigne alternati, con alberi da frutto e orti ricchi. Già prima di giungere a destinazione puntualmente si riaccendeva dentro di me questa paura: nella casupola sarebbe iniziato il battagliare avvilente contro gli scarafaggi, ragni e scorpioni… invertebrati che ancora oggi mi mettono ribrezzo, mi suscitano spavento al pari delle serpi. Ho a mente: i soli ardenti e le tiepide piogge; il piccolo cortile retrostante alla casetta… il panorama era costituito da galline razzolanti e due gatti impegnatissimi nelle loro faccende; il raccogliersi, la sera, sotto la cavità ricavata nello spessore di un muro che conteneva la statuina di Sant’Antonio, sospirando una bava di vento e colla bocca piena di cose da raccontare; l’odore misto d’incenso, di lucignolo e di rinchiuso della chiesetta borghigiana; il latte ancora tiepido bevuto prima di coricarmi. Un altro fotogramma della memoria: la musoneria burbera della nonna. Irma era una donna ostinata e nonno Ottone, esausto, cedeva le armi e l’assecondava, il generale era lei. I nonni non mi hanno mai detto che erano contenti della mia presenza… e nemmeno che mi volevano bene.
I nonni paterni: il nonno Albino è deceduto nel 1957 e la nonna Giuseppina nel 1960. Non rammento nulla.
La mia mamma – è un altro, questo, dei motivi della mia riconoscenza per lei – non mi imponeva mai niente.
1968. Mi iscrissi all’Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Zanon” di Udine. Nel mese di ottobre, per il compleanno, mi venne fatto il regalo insperato: un giradischi di plastica, dal colore grigio chiaro, fragile e malsicuro ma, per me, prezioso e bellissimo. Verso la fine dell’anno ebbi la possibilità di comprare il mio primo quarantacinque giri: “Rain And Tears” del gruppo musicale greco “Aphrodite’s Child”. L’espressione dei tre volti sulla copertina è serena, pacifica: lusinghiera promessa di qualsivoglia pace in quella stagione priva, tanto per cambiare, di affetti domestici. Adoravo quella canzone ed ancor oggi l’apprezzo particolarmente. Quel microsolco prezioso – che conservo – per lungo tempo è stato sul giradischi, vicino al letto, perché, molto di frequente, quando mi coricavo, riducevo il volume e lo ascoltavo con grande piacere: mi offriva conforto. Al primo accenno della melodia, nella stanza buia, col viso ed il petto rivolti all’insù, mi veniva spontaneo iniziare a confermare la promessa, l’impegno, di vivere come deve un uomo coraggioso, capace di lottare senza lamentarsi. Questa riaffermazione mi rendeva ognora orgoglioso e, con rinnovato entusiasmo, riuscivo a mitigare il dolore che proveniva dai violenti contrasti, dalle bugie, dagli inganni, dai tradimenti… e le ultime note amiche della canzone erano ancora lì, ad attendermi, leggère, soavi, intente a terminare la rete che avevano tessuto fra noi, una rete di consuetudine cara diventata bisogno.
Estate del 1969. Eccomi a Roma nella veste emozionante di atleta: rappresento la provincia di Udine nella prima edizione dei Giochi della Gioventù. La “mia” specialità: gli ottanta metri piani. L’inaugurazione solenne si tiene allo Stadio Olimpico! Mammamia, quant’è bello portare la scritta “Udine” stampata sulla maglietta… ed impressa profondamente nel cuore!
L’atletica leggera: altra esperienza fondamentale. Ho vissuto un quinquennio, dal 1968 al 1972, colmo di passione e di lavoro diligente. Quanto ero contento in quel movimento di diastole e sistole, del dare e del ricevere sotto tutti gli aspetti! Le “mie” specialità: categoria ragazzi, ottanta metri piani; categoria allievi, cento metri piani e frazionista nelle gare a staffetta. Titoli ottenuti: regionale categoria “studenti”; regionali ottanta e cento metri piani; italiani nella staffetta. Ancora oggi provo una grande affettuosità per i miei compagni di quel tempo e mi chiedo: «È mai possibile che sia tutta qui la storia di me e di loro?».
A Feletto usciva, nell’ultimo bimestre dell’anno, una pubblicazione parrocchiale. Articoli battuti a macchina, ciclostile piazzato in canonica ed un festoso lavorare fianco a fianco… è così che, noi ragazzi, realizzavamo gli opuscoletti. Nel 1969 venne pubblicato, nella pagina riservata alla musica, un mio articoletto: vagliato dai posti a capo, fu accolto e dato alle stampe. Che sorpresa emozionante: la mia prima pubblicazione! Al contempo però avevo tanta paura quanta non si può immaginare! Mi ero lanciato nella critica, molto favorevole, di tre canzoni uscite da poco: “Some Velvet Morning” del complesso statunitense Vanilla Fudge, “Lo Straniero” di Georges Moustaki e “Quanto T’Amo” di Johnny Hallyday.
Sul finire degli anni ’60 comincio ad essere bersaglio di quella bava ripugnante chiamata invidia. Nel corso degli anni l’attività del lanciare il “prodotto nauseabondo” contro me non ha avuto mai fine: a tutt’oggi, infatti, sono costretto a fare i conti con questa bava meschina e ributtante il cui sapore talvolta arriva in bocca. Non voglio, però, raccontare le cose incredibili che ho dovuto soffrire ed i guai infiniti cui sono andato incontro a causa degli invidiosi: so bene che chiunque abbia un po’ di esperienza può parlare a lungo dei disastri inimmaginabili che essi provocano. In questo momento rivado con il pensiero al 1993, più precisamente al periodo di fine primavera, quando un’intensa grandinata si rovesciò sulla zona pianeggiante del nostro Friuli orientale: filari saccheggiati, vigne intere bruciate, un paesaggio desolato, uno spettacolo agghiacciante nella sua brutalità. Le fatiche, le speranze di un anno vanificate. Un intero raccolto andato in malora nello spazio di pochi minuti. Nei miei occhi è rimasto impresso lo sguardo allucinato, fatto di rabbia impotente, dei contadini che non sopportano a lungo quella visione e se ne vanno a testa bassa. È passata la grandine, ha rovinato tutto. Ecco, un disastro analogo viene provocato dall’invidia: è la grandinata che “gela” il lavoro altrui, la responsabile di tanti cuori spenti, di tante energie soffocate, di tanto bene impedito.
Intorno ai sedici anni iniziai a registrare immagini del clero non molto esaltanti: il comportamento dei preti faceva sorgere dentro di me pensieri sdegnosi. Spesso mi chiedevo: «Perché predicano Dio e ne traggono profitto e potere come da una merce? Perché fanno tante cose che non hanno niente a che vedere con l’essere sacerdoti? Trovarli un po’ più spesso in chiesa a pregare non sarebbe un esempio di integrità? E se sperimentassero sulla loro pelle che cos’è il lavoro, il lavoro manuale, il “mondo del lavoro”?». Dopodiché correvo alle conclusioni: «E dai! Non si può credere in un dio legato agli affari dei preti, della chiesa!». Puntuale come un cronometro si presentò la difficile scelta fra due possibilità: parlare o tacere? Cominciai a parlare… parlavo eccome!, e, di colpo, avvertii che tirava una brutta aria intorno a me.
Da ragazzo incomincio a scrivere versi e drammi… mai terminati. Nel 1970 compongo la mia prima canzone che ancora ricordo bene. Quando in qualche occasione la canticchio, accompagnandomi alla chitarra, penso dentro di me: «Però, non è mica male».
Scopro un grande progetto di speranza: il marxismo, autentica rivoluzione nella mia vita.
Si radica in me una passione entusiasmante: i libri. La casa editrice “Editori Riuniti” è stata il primo nerbo della mia bibliotechina di poca consistenza: purtroppo dovevo continuamente fare i conti con le tasche disperatamente vuote. Quell’ardente interesse non mi ha mai più abbandonato.
La politica, ossia l’interesse per la vita associata e per l’essere umano sociale, s’impadronisce di me in progressione vertiginosa. Sì, la politica diventa sempre più linfa vitale, alimento, e mi ci metto con impegno, energia e decisione. Una sera di novembre, sentendomi il cuore in bocca per l’emozione, arrivai puntualissimo ad un appuntamento meraviglioso: incontravo per la prima volta i compagni, tre compagni, del Partito Comunista Italiano di Feletto. I due compagni operai ed il compagno falegname, cinquantenni, mi accolsero con immenso piacere. Seduti al tavolino della piccola osteria, bevendo un buon bicchiere di vino, passammo dalla gentilezza al discutere ed ancora discutere, allo scambiarci pareri, consigli ed informazioni su problemi che sentivamo necessario risolvere: senza rendercene conto ci stavamo impegnando a riorganizzare il Partito. Già da quella sera iniziai a trarre da loro le prime lezioni di umanità e di coraggio.
Organizzare era, per me, una condizione di normalità ed ancor oggi è un bisogno naturale. Non so dimenticare quando, folgorato dalla bellezza di promuovere un’iniziativa culturale – più esattamente una conferenza – sono andato con il pensiero all’Aula Magna della scuola di Feletto, dove avevo frequentato le elementari e le medie: Aula Magna nuova di zecca riservata alle occasioni solenni. Orbene, senza indugio m’incontro di buona voglia con il Signor Preside: è contento di rivedermi, mi accoglie con gioia, ci scambiamo convenevoli e rispetti. Poi inizio a manifestare il mio desiderio e, per un attimo, tutto si infiamma… continuo rendendo manifesto il tema della conferenza: «”Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci». In men che non si dica, tutto si raggela: l’argomento è chiuso, non c’è più nulla da dire né da fare.
Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Zanon”: triennio 1970-1973. Il Professore al quale devo molto è il Signor Gian Paolo Gallo, insegnante di diritto ed economia politica. Nelle sue lezioni mi affascinava: uomo di grande cultura e di ammirevole coerenza. Conferiva dignità alla scuola ed allo studio. Insuperabile maestro di cordialità e rispetto. Quando parlava, poi, con sottile ed impareggiabile ironia m’incantava… mi incantava due volte perché metteva ancora di più in chiara evidenza la mia ignoranza sterminata e fu per questo che, lezione dopo lezione, cominciai a raccogliere appunti in grande quantità. Oh sì!, tesoreggiavo insaziabilmente ricchezze, valori, beni inestimabili!
Nel 1971 fondai la prima sede paesana del Partito Comunista Italiano e creai l’Associazione Culturale “Rinascita”: il nome era una calorosa manifestazione d’ossequio alla rivista politico-culturale di Palmiro Togliatti.
Agli inizi del 1972 fui sottoposto ad intervento chirurgico: appendicite. Avevo trascorso tutta la notte senza chiudere occhio lamentandomi per i dolori addominali: ricovero urgente di primissima mattina. Sorrido rivedendomi tornare indietro, un attimo prima di partire alla volta dell’ospedale, salire in camera, prendere e poi tenere stretti sotto il braccio i due nuovissimi saggi: “Umanesimo cristiano e umanesimo marxista”, “Solidarietà cristiana e solidarietà marxista”… cascasse il mondo dovevano venire con me! Nella degenza ospedaliera furono una buona, rinvigorente compagnia: fecero sì che i conti tornassero. Chiarisco la questione. Quando Karl Marx, nei manoscritti del 1844, immaginava una società in cui tra gli esseri umani si sarebbero scambiati l’amore e la solidarietà, anziché il denaro e gli odi competitivi, non faceva altro che proporre una nuova formulazione dell’appello al soprannaturale, allo spirituale, del profeta Geremia, del profeta Amos e dei Vangeli. Quando incitava a dar vita sulla terra ad un regno di giustizia sociale, di fraternità senza classi, convertiva in termini secolari il bagliore solare, la splendida manifestazione del Messia: Gesù di Nazaret rappresenta il cardine della nostra civiltà. Quei due saggi erano quanto di meglio poteva capitarmi!
Nell’estate dello stesso anno, una grave sciagura si abbatte sulla nostra famiglia: mio padre viene messo in carcere. Accusa: furto nell’abitazione di una donna. Riesco a scovare il malloppo e lo restituisco ai carabinieri quando, in quel primo pomeriggio soffocante, tornano a casa nostra per la terza volta. Provvedimenti immediati a suo carico: sospensione dal lavoro, paga dimezzata, assistenza sanitaria tolta. Va da sé che l’ultimo anno scolastico delle superiori lo vissi sotto l’incubo del fare presto. Il muro contro cui sbattevamo la testa era la nostra situazione economica. Non avevamo via di scampo! La mia mamma continuava a prestare servizio in case private come aveva fatto fin da bambina e mio padre, un impasto di vizi, era più che mai deciso a perseverare in una situazione torbida, soprattutto perché attratto dal gioco delle carte. Le entrate miserevoli… beh, non occorre aggiunga altro se non il ricordo vivo dei due uomini che mi ritrovo di fronte sul cancello di casa: l’alto e secco come un chiodo fuma e guarda in basso, il più largo che lungo, dalla faccia quadrata, invece, mi fissa bene in volto. È il trippone che, dopo un silenzio inquietante, inizia a parlare… parla lento lento e stacca le sillabe con glacialità: «Tuo padre ci deve centomila lire». Dopo aver pronunciato questa breve frase dal carattere cupo e preoccupante, mi volta le spalle e se ne va senza troppa fretta. Lo smunto gli va dietro camminando tutto dinoccolato.
Nell’autunno e nell’inverno del 1972, e nella prima parte del 1973, spesso, nei pomeriggi, inforcavo la bicicletta di colore verde smeraldino scrostato ed andavo a Udine: ero diventato l’attento e sollecito garzone di un muratore. In aggiunta allo scarriolare sacchi di cemento, trasportare malta, empire di acqua un secchio sgangherato, trafficare con svariati laterizi e quant’altro, avevo la possibilità di arricchire il mio vocabolario imparando i “termini dell’edilizia abitativa”: calcina, malta grassa e magra, intonachino, boiacca, frattazzo, cazzuola, livella… per davvero una caterva di parole parlanti. La pegola: il signor muratore era un uomo… murato nell’incomunicabilità e verniciato di durezza, potevo quindi contare soltanto sulla buona amicizia del secchio, del badile e della carriola… e sul soldino prezioso che mi veniva dato sera dopo sera. Di tanto in tanto, per cercare di consolare la mia mamma, mi adoperavo per trovare qualcuno che stesse, come dire… più in basso di noi… ma non riuscivo mai ad individuarlo.
1973. Nella primavera fondai la seconda, molto più spaziosa, sede paesana del Partito Comunista Italiano e divenni segretario politico della Sezione. Estate: esame di maturità. Gli scritti avevano avuto davvero buon esito ma l’orale ebbe un epilogo rovinoso. Quando la Signora Professoressa di italiano capì che i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci avevano, qua e là, preso il posto del libro di testo, ossia della “Storia della letteratura italiana” di Mario Sansone, cogli occhi mi scagliò un dardo mortìfero e con voce dura mi investì: «E allora? Cosa facciamo qui? Parliamo di Foscolo o di Gramsci?!». Addio buon voto! A scuola sono stato bene. E anche se ricordo la paura dei compiti in classe e delle interrogazioni di matematica, la glacialità orribile delle formule chimiche che mi entravano in un orecchio per uscire subito dall’altro, il continuo imbarazzo venato di disagio che provavo, so che vi farò sbalordire, di fronte a quella materia per me sempre avvolta in una fitta oscurità… mi riferisco alla ragioneria… e l’essere stato in discordia con la Signora insegnante di stenografia, sempre la scuola mi sorride nella memoria come una lunga umana stagione. Sulla grande quantità di persone, i volti delle insegnanti e degli insegnanti che ho sentito maestre e maestri di vita. Proclamato “maturo”, mi si presentò l’ovvio problema angoscioso: trovare un lavoro quanto prima potevo. Il primo giorno del mese di ottobre, di lunedì, ebbe inizio la mia attività lavorativa: fui assunto come apprendista serramentista.
Il Cile sottoposto ad una dittatura. Tutta l’estate avevo trepidato per le sorti del “governo Allende” ma senza mai perdere la speranza che, alla fine, le cose si potessero aggiustare ed invece, l’undici settembre, il sanguinoso colpo di Stato militare che, interrompendo l’esperienza del governo legittimo di Unidad Popular, instaurava il terrore. Tutto è ancora vivo nella mia memoria: la spietata repressione che costò migliaia, migliaia e migliaia di creature umane morte, scomparse e costrette ad allontanarsi dalla propria patria; la febbre per la coscienza offesa dell’essere umano; la profonda sofferenza morale… Mi si schianta il cuore… è uno dei miei dolori mai acquietati. La solitudine, per alcuni giorni, fu allora un’esigenza legittima.
I mestieri che ho fatto? Ve li dico alla rinfusa: addetto alla registrazione di dati contabili; commesso tuttofare in un negozio di mobili; portiere di albergo; asfaltatore; incaricato a raccogliere – nell’àmbito comunale – elementi rilevanti per trarne dati statistici; cameriere; barista; bigliettaio per l’accesso al cinema; addetto alla ricevitoria del totocalcio; manovale nel campo edilizio; impiegato in ufficio privato; apprendista serramentista e poi dopo camionista… avevo sempre un bel po’ di paura quando andavo vagando per il Friuli con serramenti e controtelai stipati nell’autocarro a furgone.
Chiamata alle armi. Giovedì, quindici maggio 1975, nel primo pomeriggio, raggiungo la mia destinazione: Caserma “Pietro Bernardini” a Cavazzo Carnico, in provincia di Udine. Specialità militare: corpo degli alpini. Battaglione: Alpini d’Arresto “Val Fella”.
Nel maggio del 1976 il terremoto abbatte parte del Friuli mio amato. Feletto dista poco dalla zona dell’epicentro: quel tempo sarà per sempre vivo nel mio ricordo… che atroce sofferenza! Un patimento devastante, intenso, unito ad una gran paura della morte.
Il 1977 è alle porte. Rimugino dentro di me: «Il centro della visione marxista è la struttura… il marxismo è sì umanitario ma non sufficientemente. Bisogna che io riscopra la persona nella prospettiva cristiana per averne l’immagine completa. Gesù di Nazaret è il solo che esalta la persona e la spinge ad una dignità altissima». Dovete sapere che per anni me lo sono ruminato, quel mio marxismo: me lo sono ritagliato a misura mia e, senza un attimo di tregua, fino ad oggi, me lo sono confrontato con le tesi nuove con cui, di volta in volta, sono venuto a contatto. L’ho corretto, rifinito, potato, arricchito, sicché adesso non è più quello che all’epoca ho conosciuto e accettato. Ma proprio per questo, perché me lo sono fatto mio, un elemento di me, non lo rinnego: in esso trovo sintonia con il mondo nel quale vivo e con me che lo vivo.
Con un padre arrogante ed insolente in modo sfrontato, litigioso, attaccabrighe, violento… non era il caso di illudersi. Di conseguenza non esitai ad interrogarmi: «Rassegnarmi o creare? Sopportazione o indignazione? Aspettare un evento miracolistico o rischiare una via nuova?». Adottai il rischio, inventai un cammino. Nella primavera del 1977 ci trapiantiamo in provincia di Gorizia: Monfalcone, una città sulla fascia costiera. Ricalandomi in questo mio lontano ricordo posso dire che, senza rendermi conto, a quel tempo rifiutai di piegarmi al vento della realtà più brutale e lo sfidai a colpi di speranza: la mia mamma era vittima di tradimenti, pativa ingiurie, angherie, tormenti fisici… e io dovevo liberarla. Prima di partire alla volta di Monfalcone, procurai che tutto fosse in ordine. Ero entrato in scena senza paura… e al momento giusto?… ma, ahimè, quanto è stato difficile possedere il coraggio di… uscire al momento opportuno, uscire non con l’aria indispettita ed ingrugnita di chi ha subìto un’ingiustizia, ma con la gioia, la soddisfazione profonda di chi riconosce che «è giusto così». A Monfalcone, la mia mamma cambiò rapidamente il proprio stato: rifiorì. La Storia si muove, e mi muove, a passo speditamente gioioso. Il passato non pesa, il presente è una radiosa avventura, il futuro ha sconfinati orizzonti.
Via Michelangelo Caetani, piccola via ai margini dell’antico ghetto di Roma, 9 maggio 1978: in un punto equidistante dalle sedi centrali della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano, le Brigate rosse abbandonano il cadavere crivellato con colpi d’arma da fuoco di Aldo Moro. Sono passati cinquantacinque giorni da quando lo hanno rapito durante un sanguinoso agguato in Via Fani, il 16 marzo. Riassumo brevemente l’avvenimento che ha preceduto questa mostruosità. Aldo Moro era Presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana ed aveva preso in considerazione l’assolutamente necessario passo: quello di un patto significativo con il Partito Comunista Italiano. Solo in questo modo si poteva sperare in un governo nazionale fondato su princìpi democratici autentici. Do evidenza ad un particolare: il “compromesso storico” sembrava ancora più attuabile perché il Partito Comunista Italiano era passato sotto l’intelligente guida di Enrico Berlinguer, che lo aveva distaccato dall’eredità stalinista permettendo così che l’Italia continuasse ad essere un membro della NATO. Per quasi venti mesi i comunisti si erano astenuti in Parlamento. Quindi avevano dichiarato di essere pronti a partecipare ad un governo nazionale; la sua presentazione in Parlamento era fissata proprio per il 16 marzo 1978. Come la penso: Aldo Moro è stato dato in pasto ai lupi dai suoi stessi alleati e dai colleghi politici; la “manovalanza” lo ha ucciso mentre “associazioni segrete e servizi corrotti vari” ne hanno fatto fallire la liberazione.
1979. Con tanta passione voglio essere “scrittore” e “poeta”. Desidero che lo scrivere sia una mia ragione di essere, un’attività che non conosce riposo, non una professione.
Nel 1980 conobbi l’obbrobrio del tradimento: mi pareva impossibile ma era così. Piansi di dolore per molto e molto tempo. Ero riuscito a trovare un giovevole momentaneo rimedio contro quella sofferenza che mi lacerava il cuore: quando essa si avviava a diventare più devastante del solito, mi mettevo a correre e, tutto ad un tratto, il patimento si faceva un pochettino più sopportabile… vi assicuro che quel cicinino era più di quanto sia possibile dire o credere.
1984. Nel mese di giugno perdo un amico, un fratello, e nel mese di agosto perdo un’amica, una sorella. La tristezza pervade l’animo… lama che penetra a fondo nelle carni… sento una caduta di stanchezza dentro: la scienza degli addii è dura da imparare. Di lui, «sale della terra!», e di lei, «una vita per la vita!», non mi è facile parlare.
La politica era diventata ormai un elemento costitutivo di me e della mia umanità, si era fatta tutt’uno con il mio operare, con il mio pensiero, componente implicita del mio agire. Proprio per questo mi dissi: «Non è più necessaria una partecipazione militante: metti da parte questi impegni e opera in attività che ti sono più congeniali».
1985. Nome d’arte o nome anagrafico? «… e per di più il nome Claudio mi è sempre piaciuto. Il cognome? Vi assicuro che non mi ha mai messo in difficoltà: figuriamoci se nascondo la mia identità anagrafica!».
1986. «Non c’è niente di peggio che diventare un “personaggio”, rilasciare interviste, comparire in pubblico e ripetere sempre la stessa solfa anche perché le domande sono sempre le stesse. Ci si ritrova a blaterare sui giornali, a fare dichiarazioni dal video, a rilasciare interviste affrettate. Telefonano tutti, giornalisti soprattutto: ti rubano il tempo e parte dell’anima, se uno ci casca». No, non faceva per me… «… meglio starsene da parte: sottrarsi alla morsa, difendersi non solo dal troppo delle parole degli altri ma anche limitare le proprie». Mi defilai, mi sottrassi a quella situazione di costrizione: fu, questa, una basilare e definitiva scelta di vita.
L’edizione 1988 del Festival di Sanremo. «Io conosco la mia vita e ho visto il mare… e ho visto l’amore da poterne parlare… e ho visto l’amore vicino da poterlo toccare…»… canta Fiorella Mannoia e lacrime mi salgono agli occhi in questi passaggi dolcemente imprevisti; la gratitudine per la vita, la mia e la loro [Fiorella Mannoia ed Ivano Fossati N. d. R.], mi fa correre più rapido il sangue… Lo stile semplice, cantabile, si sposano con il rigorosamente raffinato, con l’ariosità della esattezza di costruzioni sottili: sì, mi rendo conto che il poetare è dunque un atto di necessità comunicativa. Ah, la poesia… antico amore: con lei mi sono fidanzato in giovanissima età e a partire dal 1987 ha deciso di spremere, senza requie, tutto il sangue del mio cuore. Lei trasforma le cose di cui parla, sa andare oltre gli oggetti concreti… non è descrizione ma creazione: è il luogo sacro dove sono custodite le più profonde verità della mia vita.
1989. Scopro… o, per meglio dire, riscopro in me un interesse vivo, come un’inclinazione innata, per l’insegnamento; essere a contatto con le persone, interessarle ed entusiasmarle mi piace… e mi sarebbe piaciuto sempre.
La sera del ventotto febbraio 1990 vediamo ed ascoltiamo Milva cantare sul palco del Teatro Ariston di Sanremo: «… e sento, in un minuto, tutte le donne del mondo che hanno bisogno di aiuto: ma non lo sanno dire e fanno finta di non capire…». L’uomo che ama veramente una donna la va facendo bella, stupenda di bellezza: la donna deve essere dappertutto dove è l’uomo e con l’uomo. Solo così, in ogni atto individuale, la “persona” è completa.
1991. Guerra del Golfo… bisogna arrivare ad una diffamazione spietata e totale della guerra, presentandola come il più assurdo, crudele ed inutile modo di risolvere le questioni. In quell’anno accadde anche qualcosa che io giudico, a dir poco, terribile: la fine del Partito Comunista Italiano. Evento del quale penso che, a distanza di oltre un trentennio, tutti stiamo ancora pagando il prezzo.
Ottobre 2002. Esce dalla vita un bene infinito, una luce assoluta che non mi è possibile dividere con nessuno in parole: incolmabile è il vuoto che la sua calda umanità ha lasciato. Subito dopo sono alle prese con la mia necessità pressante: organizzare. Ma, ho presente, non fu solo esigenza fisiologica, irrequietezza intellettuale, lo sfogo d’un bisogno di moto e di azione; fu, dopo quasi vent’anni di peregrinazioni, l’accresciuto desiderio dell’impegno e del lavoro solidale con le persone, con tante persone: un fatto di vita. Nel mese di novembre, per l’esercizio di un’attività commerciale, fondo una società.
Nel 2003 reco il mio contributo in lavoro ad un’istituzione che si era impegnata con energia e decisione per una giusta causa: dare inizio a corsi doposcuola gratùiti. Altro fatto rilevante: nello stesso anno, viene accettata la mia domanda di essere ammesso nel corpo insegnante dell’Università della Terza Età del Monfalconese. Darò vita alla Compagnia Teatrale “Oggi, Domani e Sempre…” l’anno dopo, nel 2004… sabato 22 maggio.
2005. No di sicuro. Grazie. «Passi qualche decennio della tua vita su un foglio bianco e ti sforzi di scrivere in maniera decente, chiara, alla portata di tutti. Studi e ti documenti con serietà. Accumuli decine di migliaia di pagine sudate, rinunciando a parecchie ore di sonno ed a una grande quantità di cose allettanti, rimanendo inchiodato al foglio bianco ed a quello che ti serve per scrivere. Poi, un giorno, ti chiamano alla Televisione per dire quelle quattro… lasciamo là, e ti incalzano a dirle in cinque minuti, magari con uno stacco musicale nel mezzo. Immancabilmente, e per diversi giorni, quando esci per strada, tante persone ti riconoscono e c’è chi si avvicina per confidarti: “L’ho vista alla Televisione!”. Mia certezza assoluta: avrai l’impressione che di te sappiano solo quello che è apparso, per cinque minuti, sul piccolo schermo colorato e ignorino totalmente le cose più importanti, quelle che stanno alla base della tua vita. Ricaverai la sensazione, sgradevole, che in quei sventurati cinque minuti sei stato defraudato del più, del meglio… o meno peggio, di te stesso».
2006. Mi si para davanti sto ricordo. Centocinquant’anni addietro, nel 1856, nasceva “il gigante” Sigmund Freud, medico austriaco specializzato in neurologia e psichiatria, fondatore della psicoanalisi. Per farla breve: «… l’opera di Sigmund Freud? Per me, Freud è un grande scrittore in lingua tedesca, non per niente ha ricevuto “il premio Goethe” assegnato alla letteratura, ed un abilissimo narratore di mitologie. Nessuno, però, è mai riuscito ad incontrare qualcuno che assomigli al cosiddetto “paziente di Freud” e nessuno ha mai incontrato qualcuno che sia guarito con la psicoanalisi. Da non dimenticare: ha persino risvegliato gli esseri umani dai loro sogni innocenti. Eh già, arriva il Signor Freud e ci porta via i sogni: neanche sognare in pace ci lascia. Dal canto mio, qui finisce la storia».
2007. Decisa riconferma. «Sì, ho una severa regola di vita riguardo l’esame critico di un’opera: non parlo, né parlerò mai male di una composizione musicale, di una canzone, di un libro. Se non ne riconosco il valore, non raccolgo l’invito a parlarne».
Nel 2014 creo l’Associazione Culturale “Oggi, Domani e Sempre…”.
2018. Mi rendo conto d’essere diventato molto avido di spazio e me ne tolgo il gusto nella nuova bellissima stanza, a pianterreno, laddove continuo a vivere come solo sovrano, con tutte le veneziane alzate. Là, il desiderio ed il potere di scrivere sono miei come in nessun altro luogo. Il tumulto della vita esterna mi raggiunge in onde amorevoli e con la sua luce, il suo odore, il suo suono, agita la mia fantasia a scrivere… scrivere… scrivere.
2024. Frequentemente sento parlare di testamenti: no, l’argomento non mi interessa. La mia contabilità è stata sempre molto semplice: quello che mi è appartenuto nei casi del vivere, grasse o magre fossero le vacche, è stato sempre condiviso… e spesso spesso fuori dalle pareti domestiche, perciò nessuno dovrà, dopo di me, scervellarsi.
Alcune attestazioni di stima e di affetto
«Debiti di gratitudine
che si pagano con una vita… all’altezza».
Claudio Gardenal